Rimanendo ancorati al nostro territorio “ticinese”, e naturalmente al già focalizzato contesto cinematografico, dopo RISO AMARO ci accostiamo a un altro lungometraggio realizzato (in parte) qui da noi, relativo all’alienante comparto industriale dei decenni trascorsi…
Ci riferiamo come ovvio a LA CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO (1971), per la regia di Elio Petri, il quale volle scavare nei traumi psicofisici generati dai tempi di produzione, oltre che da capiturno e dirigenti senza scrupoli. Il trentuenne Lulù Massa (un grandissimo Gian Maria Volontè) è una tuta blu della Ban, un’azienda metalmeccanica del Nord Italia; sul macchinario in dotazione, Massa opera a ritmi indiavolati per otto ore di fila, esemplificando il prototipo del provetto cottimista e stakanovista, già dall’annuncio dell’altoparlante interno: “Lavoratori buongiorno, la direzione aziendale vi augura buon lavoro!”. Sogni piccolo borghesi quelli di Lulù, come il televisore, l’automobile e un Milan competitivo, dai quali distillare un’illusoria felicità, nonostante due intossicazioni da vernici, l’ulcera, una ex moglie e figlio praticamente a suo carico, oltre alla nuova compagna Lidia (Mariangela Melato) e il bimbo di quest’ultima, e per finire nessuna amicizia autentica. Del tutto indifferente alle problematiche lavorative, getta nella produttività le proprie frustrazioni, finchè un giorno, per compiacere un caporeparto che lo stima parecchio, si trancia di netto il dito di una mano. Da quell’istante svanisce la figura chapliniana dell’operaio robot, elogiato da quadri e cronometristi, rimpiazzato da un soggetto che si schiera con le istanze più radicali espresse dagli studenti in agitazione, e dalle “teste calde” in stabilimento, diametralmente opposte a quelle di un sindacato fin troppo morbido. Nel corso di uno sciopero, si avverte un clima incandescente ai cancelli della Ban. Intemperanze assortite e assalti alle auto dei dirigenti in transito, laddove Lulù risulta fra i più esagitati, nonostante l’intevento delle forze dell’ordine; un atteggiamento sconsiderato, antipasto di un imminente licenziamento in tronco, comminato fra l’indifferenza generale e l’addio di Lidia. A seguire giornate vuote e avvilenti, che lo spingono a un passo dal baratro, ma attraverso la mediazione sindacale viene reintegrato in azienda, e collocato in catena di montaggio. Snervato dalla monotonia dei gesti e dallo stress, il nostro comincia a farneticare, favoleggiando di un paradiso degli operai avvolto da una fittissima nebbia, oltre il muro, ma le sua strambe raffigurazioni si perdono fra i fastidiosi rumori della fabbrica.
Un’opera spiazzante e aspramente contestata all’uscita in sala, che pone in evidenza la quotidianità all’interno e all’esterno degli stabilimenti; una miscela detonante, fra l’astrattismo concettuale degli universitari, distante dalle problematiche dei salariati, un sindacato pavido e a tratti colluso, un tempo libero alienante e l’imborghesimento consumista del protagonista. Sostanziale, ruvido e senza filtri, le sequenze lavorative del film vennero girate nei locali della Falconi, storica industria di ascensori di Novara, durante le vacanze natalizie 1970/71, alla fermata degli impianti. Detestato a destra, e accolto con cautela e freddezza a sinistra, LA CLASSE OPERAIA s’aggiudicò altresì la Palma d’oro a Cannes, nel 1972, mentre tutt’oggi lo possiamo reputare un convincente affresco di un mondo pressochè tramontato.
Buona visione a tutti! Germano Galli