Negli ultimi anni il panorama filosofico internazionale ha dovuto misurarsi con alcune teorie che possiamo genericamente definire “etica della cura”. Ma di cosa si tratta? E soprattutto possono essere una forma di pensiero capace di modificare e migliorare la società post-moderna in cui viviamo?
Cosa significa cura?
Dobbiamo sicuramente iniziare dando una definizione al termine “cura”. La filosofa Joan Tronto ne elabora una, insieme alla collega Berenice Fisher, in cui la cura viene descritta come «un’attività che include tutto ciò che facciamo per mantenere, continuare e riparare il nostro “mondo” in modo da poterci vivere nel modo migliore possibile. Quel mondo include i nostri corpi, le nostre identità e il nostro ambiente, tutto ciò che cerchiamo di intrecciare in una rete complessa a sostegno della vita»[1]. La definizione proposta dalle due statunitensi è apprezzabile in quanto «si estende sino a comprendere l’intera biosfera, la cui sussistenza è messa in pericolo dall’incuria umana»[2]. In questo senso nell’attività di cura sarebbe compreso anche il compito di riparare ciò che l’uomo ha danneggiato con lo scopo di rendere il pianeta ancora vivibile per le generazioni future.
Ognuno di noi ha bisogno di cure
Luigina Mortari, professoressa presso l’università di Verona, in Filosofia della cura[3], spiega come e perché la cura sia una parte essenziale della natura dell’essere umano: «senza l’aiuto premuroso di altre persone non si riesce a far fiorire le proprie possibilità d’essere né si trova riparo dalla sofferenza»[4]. L’uomo è per sua natura sempre in stato di bisogno, desidera cioè una realtà piena che però non potrà mai raggiungere ed è perciò sempre impegnato nel tentativo di procurarsi ciò che gli serve per nutrire e conservare il suo essere: corporeo e spiriturale «L’essere umano è dunque chiamato ad avere cura di sé.»[5].
Ci sono dolori e imprese che l’uomo non è in grado di affrontare da solo ed è proprio in questi momenti che il fatto di vivere in mezzo ad altri, tutti ugualmente fragili, fa la differenza. «Non c’è esistenza senza cura di sé; ma la cura di sé ha necessità del nutrimento che viene dal ricevere cura da altri. Per tale ragione la cura per l’altro è un valore grande, irrinunciabile»[6].
I filosofi dell’etica della cura ritengono evidente il fatto che la vita dell’uomo non sia un evento solipsistico in quanto intimamente connessa con la vita degli altri. Per dirla con Aristotele l’uomo semplicemente è un animale sociale e fingere che non sia così ha delle grosse ripercussioni negative.
Un indizio di ciò emerge quando, la filosofa italiana, pone l’accento sul fatto che per noi esseri umani perdere qualcuno al quale si è legati significa perdere una parte di sé. «Evidenziando l’irrinunciabile bisognosità dell’altro che caratterizza la condizione umana».
Mortari fa emergere la necessità intrinseca di un’etica della condivisione. Tale necessità, nella contemporaneità, è oscurata dalla struttura della cultura vigente: il pensiero analitico, divide il tessuto della vita in parti distinte nel tentativo di ricercare le unità fondamentali, inducendo a concepire la realtà come una somma di enti separati, tenuti insieme da forze a loro estrinseche. Da questo paradigma prende forma l’immagine dell’individuo come ente recintato dai confini della propria pelle. Eppure questa visione atomistica non corrisponde in nessun modo all’essenza della condizione umana che invece è fondamentalmente relazionale «in quanto l’identità personale è la forma emergente dalle relazioni che strutturano il nostro spazio vitale»[7].
Il fatto che l’uomo sia un essere relazionale fa si che il dipendere da altri si traduca in una vulnerabilità costitutiva «poiché siamo sempre sottoposti alle azioni che gli altri enti e gli altri esseri viventi mettono in atto, azioni che possono fornire nutrimento per il nostro essere ma possono essere anche minacciose»[8]. Nondimeno, ciò che da senso alla vita dell’uomo, secondo Mortari, sono i beni relazionali come l’amore, l’amicizia e i legami politici intenzionati a costruire spazi condivisi. Il motore dell’azione di cura è l’interesse per l’altro, inteso come «un guardare all’altro mosso dal sentirsi in connessione con l’altro. Avere interesse per la sua condizione significa avere preoccupazione per la sua condizione»[9]. Questa preoccupazione prende piede da una condizione di necessità avvertita nell’altro. Il fatto che ognuno
abbia necessità di cura rende evidente che ognuno quindi ha da aver cura per gli altri […] Il senso di responsabilità necessita di una precisa posizione del pensiero: sapere che tutti noi siamo deboli, sentire la propria debolezza e capire che l’altro è nella mia stessa debolezza, perché solo sapendo che siamo tutti fragili e vulnerabili si può avvertire la tensione ad agire per l’altro, a fare per l’altro quello che vorremmo fosse fatto per noi.
L. Mortari, Filosofia della cura, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015.
Il punto è che le vite degli uomini sono intrecciate le une con le altre e quindi la ricerca di una buona qualità di vita non può mai essere un’attività solipsistica. Un aspetto rilevante da sottolineare è che un’etica che si basa sul concetto di cura non ha alcuna intenzione di degenerare in comportamenti dimentichi del care-giver.
Prendersi cura degli altri e del mondo non significa dimenticarsi di sé stessi
Le teorie connesse all’etica della cura non hanno niente a che vedere con comportamenti dimentichi dell’importanza della propria persona e del proprio benessere personale. Non si sostiene l’annullamento del proprio sé in favore degli altri. Una richiesta infinita di cure non è sostenibile per nessuno.
È nell’ordine delle cose, per colui che si prende cura dell’altro, sentire la necessità di fermarsi, di avere una propria intimità dove raccogliersi tra i propri pensieri e ritrovare la forza vitale. Mortari è ferma nel sostenere che tutto ciò è assolutamente possibile e connaturale in un sano rapporto di cura: «non si può non badare a sé stessi, perché non c’è cura per l’altro se non c’è cura per sé»[10].
Annullare la propria persona per dedicarsi solo e unicamente all’altro non è sano, bisogna imparare a bilanciare la situazione, «c’è un modo della presenza in cui il soggetto agisce nella pienezza del suo pensiero e del suo sentire, e con la necessaria attenzione per sé, ma nella direzione della cura per l’altro»[11].
[1] B. Fisher, J.C. Tronto, Toward a feminist theory of caring, in E. Abel, M. Nelson (eds), Circle of care: work and identity in woman lives, SUNY Press, Albany, pp. 35-62.
[2] N. Bombaci, Filosofia ed etica della cura, in Filosoficamente, Università di Macerata, 2000-2022, https://www.unimc.it/filosoficamente/intersezioni/filosofia-ed-etica-della-cura.
[3] L. Mortari, Filosofia della cura, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015.
[4] Ivi, p. 13.
[5] L. Mortari, Filosofia della cura, cit., p. 23.
[6] Ivi, pp. 34-35.
[7] Ivi, pp. 45-46.
[8] Ivi, p. 47.
[9] Ivi, p. 88.
[10] L. Mortari, Filosofia della cura, cit., p. 120.
[11] L. Mortari, Filosofia della cura, cit., p. 120.