Spondeticino incontra: Mattia Anzaldi, presidente di Nòva, un luogo d’incontro nel cuore di Novara. “Ex caserma militare, oggi è un centro di aggregazione giovanile e di produzione culturale” come si legge dal loro sito.
Da dove nasce l’idea di uno spazio e di una realtà come la vostra?
La storia di Nòva, del recupero dell’ex Caserma Passalacqua, nasce da una buona intuizione del Comune di Novara. In un periodo di transizione tra due amministrazioni, il Comune ha avuto il coraggio di credere nel progetto: cedere quota parte del controllo che aveva in uno degli spazi in disuso della città, non utilizzati e concessi dal demanio, l’ente Nazionale, con il supporto di un coordinamento con un tavolo di altre sette associazioni e cooperative sociali molto diverse. Da lì sono scaturiti 4 anni e mezzo di co-progettazione. Parlo di un tavolo abbastanza raro, infatti il Comune non ha scelto di affidare in toto lo spazio alla compagine sociale o al privato sociale, ma di tenerle insieme. Si è creato un gruppo abbastanza particolare, di soggetti di carattere diverso che da anni lavorano su questo spazio.
Che cosa avete dovuto fare concretamente per raggiungere l’idea che avevate in partenza?
L’obiettivo non l’abbiamo ancora raggiunto e quindi parto da questo: la prima cosa forse che ci vuole è un sacco di pazienza e la consapevolezza che il tempo che ci vorrà è direttamente proporzionale all’ambizione e alla quantità di spazio mosso. Nello stesso momento è partita proprio la falegnameria sociale: Fadabrav. Eravamo molto consapevoli che era la cosa che saremmo riusciti a fare in molto meno tempo – un anno e mezzo – e questo è stato un mezzo anche per trovare le forze e nel frattempo sviluppare metodologie, modelli di governance e best practices di progettazione. Ci sarebbero servite per realizzare più in grande, più lentamente, i nostri desideri su Nòva. Questo luogo ha una quantità di bisogno in termini di tempo, di idee e anche di soldi e quindi la prima dote che ci vuole è tanta pazienza. Perché le idee col tempo arrivano, i soldi non sono mai un problema o quasi mai, soprattutto se ci sono le modalità e le capacità progettuali, da una parte per fare crowdfunding e dall’altra parte per sostenere nei modi diversi le attività. Ma sono proprio il tempo e le energie le cose che mi fanno più paura. Intanto, la tua vita è cambiata: i bisogni non sono più quelli che avevi mappato all’inizio e rischi di aver percorso una lunga maratona, poi arrivato alla fine ti accorgi che la gara era già finita.
Di cosa vi occupate concretamente e come? Esiste un’associazione o più di una che gestisce le attività?
Credo che una delle cose più belle che accade in questo tipo di spazi è il lavoro manuale. Attiva un sacco di partecipazione perché fa emergere tutte le conoscenze incredibili di una certa generazione, che si spende, che spesso è quella dei genitori dei ragazzi che vengono a Nòva a fare i compiti o sono i nostri genitori che si spendono proprio direttamente. Ora c’è un doppio sforzo: da una parte vengono mantenute in campo le attività di carattere educativo, parte del lavoro delle politiche sociali con il supporto degli educatori con l’aiuto-compiti o con la modalità della peer-education.
Abbiamo organizzato poi una piccola rassegna estiva e quindi c’è tutto il lavoro di preparazione, molto complicato, perché devi andare a capire qual è la capacità di spazio di una stanza o nel cortile: quanti ne metti? Da giugno a luglio e poi un pezzo di agosto, abbiamo tutta una serie di attività – già in cantiere – che riguardano eventi culturali, concerti e attività formative ed educative.
Quale è stato l’impatto in città?
Le caserme a Novara sono tutte in fila: tre caserme militari in fila. Tutte abbandonate. O quantomeno non più ad uso militare. Su tutte e tre si sta cercando di intervenire o quantomeno l’amministrazione dichiara di voler intervenire su tutte e tre. Il punto positivo è che siamo molto vicini al centro storico e poi abbiamo intorno a noi oltre nove scuole nel raggio di pochi chilometri. Qui non è una zona residenziale, a differenza di quello che accade nella falegnameria sociale, che si trova nel tipico “quartiere periferico”, molto di prossimità, dove poi si possono sviluppare azioni di lavoro sulla comunità. Però a Nòva riusciamo a lavorare moltissimo con gli studenti. In città mancano luoghi di studio e la ex-caserma è destinata a lavorare con questo tipo di quartiere – un quartiere di scopo – quindi non abitativo, ma frequentato da persone che orbitano tra le scuole e i centri educativi.
Quali sono gli altri progetti che avete in mente per Nòva? E poi, come vi vedete tra 5 anni?
Tra cinque anni mi piacerebbe risponderti che quello che sto facendo adesso a Nòva possa creare le condizioni per cui tra 5 anni tutto possa funzionare al meglio. Ad esempio, abbiamo la sala prove che lavora con musicisti e con ragazzi con sindrome di Down e con handicap fisici. Vorremmo creare un luogo molto ibrido – una community musicale – fatta di persone che usano l’attrezzatura, la strumentazione ma non solo. Poi c’è il megaspace: uno spazio dove elaborare e sperimentare con le persone in una chiave tecnologica e digitale, non soltanto un luogo per nerd, ma anche un luogo di una cultura del digitale. Così per cercare di unire il tema dell’educazione dei giovani con una consapevolezza dell’identità digitale, per le responsabilità tecnologiche che viviamo in questo momento, perché è una chiave di lettura che riteniamo importante per il nostro presente. Poi vogliamo un’area che vada in supporto a tutte le altre attività dello spazio: un coworking per creare collaborazioni lavorative, poi un ostello per il quale abbiamo già identificato le stanze, magari in occasione di festival ed eventi, un piccolo spazio che possa anche fungere da residenza.
Quali difficoltà avete incontrato durante questo percorso?
Credo che fare questi progetti sia un po’ come giocare al gioco dell’oca in tanti: una continua corsa ad ostacoli, in cui nella maggior parte dei casi non si è del mestiere e un po’ bisogna arrangiarsi. Ed è pieno di piccoli ostacoli che però credo sia proprio il bello di questi progetti: è un problem solving costante. A un certo punto diventi esperto di progetti, esperto di vernice a calce e di altre cose che nella tua vita non avresti mai immaginato. Ma comunque rimangono almeno mille cose che ti mettono in difficoltà e allora quello che puoi fare è entrare in questi circuiti, in cui cerchi di condividere soluzioni per non dover ripetere gli stessi errori, per una grande sete di conoscenza. Abbiamo avuto l’ispirazione da una falegnameria sociale di Torino, in parte dallo spazio che sta a Bari.
Un messaggio per chi ti leggerà?
Un invito: non perdere la voglia di far fatica con gli altri. Spesso, le organizzazioni tanto più diventano complesse, tanto più si allargano – ingrandendo l’ambizione – e tanto più la mole di lavoro si accumula. Gli ingranaggi da far girare non sono solo relazionali, ma anche funzionali. Nel terzo settore si respira sempre un po’ di fatica, dovuta al fatto che poi siamo sempre pronti: andare incontro alle idee, più che convergere o fare delle sintesi e non è facile. Lo facciamo tutti la sera, nel weekend o nel tempo ritagliato dalla famiglia. Dopo gli anni che abbiamo passato collettivamente in tensione, forse a tutti, è un po’ venuta la voglia di provare a costruire qualcosa. Io non vorrei che dopo questa pandemia avessimo un po’ più di paura dell’altro, anzi, spero che troviamo un’occasione in più per provarci insieme: lavorare e far fatica, poi sopra ci mettiamo tutta la parte creativa di idee e di immagine. Quindi l’augurio è di uscire di casa e di provare ciò che uno desidera.
Come dalla pagina web: “Nòva è tutto questo, un miscelatore di incontri, un frullatore di vite ed esperienze sociali, un luogo che espande le competenze, stimola la partecipazione attiva e alimenta il desiderio”